venerdì 3 marzo 2017

Eclipse.

Eclipse.
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“Il matto è sull’erba!”
“Quel pazzo è qui!”
Erano le parole, dette in un inglese apparentemente ridicolo, che passavano di bocca in bocca, tra la gente che stava popolando quel bellissimo giardino. Parole dette in uno stato quasi di paura, tensione, neanche troppo deboli per non essere udite da tutti. Così d’improvviso quella vastissima distesa verde, quell’immenso giardino, divenne stranamente, ma neanche troppo, vuoto. Ma non per questo meno bello, perché tolte le persone si potevano notare tutti i particolari che lo rendevano talmente perfetto.
Eppure questa storia non narra del giardino e della sua perfezione divina. No.

In quegli attimi di tensione, di finta paura, o poco prima, chissà, qualcuno si tolse le scarpe e cominciò a camminare nell’erba senza troppi problemi, senza troppe preoccupazioni. Nello stesso modo si buttò a terra, senza pensare troppo ai modi, ma con una strana espressione nel volto, che in pochissimi avrebbero potuto decifrare. In quei passi pacati, apparentemente da gente comune, come nel volersi mischiare,il ragazzo sentiva una musichetta, lontana. Un giro, probabilmente di chitarra. Semplice, poche note, ma quasi imprevedibile. Un po’ come lui. E forse quel giro lo aveva sempre in testa quando andava lì, forse no, ma il tutto sembrava di una straordinaria routine.

E anche quando tutti scomparvero, a lui non sembrò importare troppo.
Il  giro continuava come se niente fosse, era ordinaria routine, dopotutto.
Lui  non si fece troppi problemi, quelle parole vennero assorbite da un lato della testa e gli uscirono dall’altro. Forse qualcosa rimase, forse un piccolo dolore. Ma qualcosa di impercettibile, qualcosa da cui non tener conto. Fino al momento in cui tutto questo dolore si sarebbe rivoltato contro di lui. Fino a quando quel dolore non sarebbe stato più semplicemente un segno di diversità.

Sdraiato,guardava in alto con le mani dietro il capo, quando si alzò un piccolo venticello, che gli fece svolazzare i tanti capelli che aveva in testa. Non che fossero lunghi o che cosa, ma ne aveva tanti che formavano una strana capigliatura, ma affatto brutta. Ora il viso era totalmente scoperto, non c’era più nessuna barriera per gli occhi che non permetteva di fare ciò che più gli piaceva.
Ricordava anni passati in quel giardino. Anni di fanciullezza. Giochi, divertimenti, follie. Follie che si potevano riassumere in una folle risata, che ricordava a memoria.  E degli amici.
Non poteva sapere, o non lo voleva, se questi ricordi appartenessero ad anni lontani, o a qualche giorno prima.
Non poteva sapere, se quelle figure che ricordava erano reali o solo fantasmi della sua mente.

In mezzo al cielo, di un po’ azzurro e un po’ viola, si poteva vedere la luna. Si intravedeva, lì, nel suo grigiore, o chissà quale altro strano termine poteva essere usato per descriverla.
Nel suo grigio splendore, ecco.
A volte qualche nuvola le passava dinanzi, a volte si vedeva di meno, chissà se per problemi di vista o per chissà cos’altro. Ma era splendida.
Rimase lì a guardarla per tanto tempo, ad ammirare quel volto che ormai tutti conoscevano.
In fondo, c’era qualcosa che nella sua lucentezza la oscurava, la rendeva di giorno un pezzettino grigio in un cielo a volte splendente e a volte di lacrime.
Si voltò, e dietro di se vide il sole.

Era una cosa particolare, quel posto, soprattutto nel punto in cui si posava lui. Sembrava di essere in uno spigolo del mondo, o forse al culmine dell’universo. Sembrava essere rialzati da tutto e da tutti, e se ci si voltava si poteva vedere il sole alzarsi in cielo o richiudersi proprio dinanzi a se. Uno spettacolo meraviglioso, anche se a lui non importava troppo.
Cambiò posizione, si girò sdraiato e cominciò a guardare fisso il sole. La scena era qualcosa di epico, sembrava che davanti a lui ci fosse un baratro di vuoto cosmico, e che il Sole ci stesse per finire dentro. Chissà, forse allungando la mano lo avrebbe anche toccato.
Lo guardò fisso per tantissimo tempo, immobile e in silenzio.
Forse per interminabili minuti scanditi da quella che poteva sembrare un azione noiosa, forse per ore, ma più il tempo passava più i suoi occhi non si richiudevano dalla stanchezza di guardare in fronte la luce, anzi, si aprivano sempre più in uno sguardo attento.
Forse era passato così tanto tempo che si era fatta sera, forse l’obbiettivo di inquietare quella lucente entità col suo sguardo folle era stato raggiunto, fatto sta che il sole tramontò, quasi ad una velocità impressionante.
E in un attimo, le stelle sembrarono alzarsi più in alto che mai, la prospettiva di quel posto sembrava cambiare, e ancora una volta il suo incomprensibile sguardo si poteva posare su qualcos’altro.  
Su qualcosa di meglio.

Finalmente la Luna splendeva lucente, finalmente la Luna era visibile agli occhi di tutti, anche da chi non lo meritava.
Era visibile, ma era incompresa.
Lui lo sapeva, e pensava, pensava. A giudicare dagli altri, doveva essere una cosa altamente improbabile.

Si alzò in piedi, si aggiustò le maniche, poi continuò a guardare fisso la Luna. Cambiava spesso di posizione, si muoveva qua e la in modo disconnesso, si abbassava, spostava, sgranava gli occhi o faceva qualsiasi altra apparentemente folle cosa per raggiungere il suo temporaneo, ma neanche molto, obbiettivo. Voleva guardare dietro la luna, voleva poter ammirare il suo lato oscuro. Il motivo lo sapeva soltanto lui, ma era talmente preciso quanto instabile.
I suoi pensieri erano giusti, in fondo.
Quando finalmente la follia può essere vista dal mondo, ci si accorge che è comunque splendente agli occhi di tutti grazie al sole. E a che serve a quel punto, splendere davvero. A che serve essere folli, se vieni notato solo se illuminato da una stramba umanità, da una odiosa normalità?

Era scientificamente impossibile, giusto. Nessuno poteva guardare quel lato della luna.
Nemmeno lui, che ci era talmente legato.
Chissà perché, poi…
Era un lunatico, giusto. Lo dicevano anche tutti.
Ma lunatico in quale senso?

Si sforzò un attimo a pensarci. Poi si accorse che aveva fame.
Avrebbe dovuto lasciare quel lungo, dopotutto era tardi. Eppure che ore erano non importava, era solo un trascurabile dettaglio.
Prese a camminare per uscire da quel giardino, per poi voltarsi indietro per guardare ancora la Luna.
Mosse il suo sguardo in modo panoramico, catturò nella sua vista tutte quelle stelle, che si riunivano e dividevano per formare dei disegni divini e lucenti. Solo lui poteva comprendere quanto fosse stupido pensare che fossero carri o unicorni, e non segni divini di richiesta di un ritorno, o forse di un invio.
Forse in fondo solo lui poteva immaginarlo.
Ci fu un attimo strano, intenso, quasi cinematograficamente epico. Quando lui si voltò per riprendere la camminata, il suo sguardo era come quello di un arrivederci, di un saluto temporaneo, e successivamente con la coda dell’occhio non poteva non guardare indietro ogni qualche secondo.

Strano a dirsi, ma quell’immenso giardino dalle particolarità divine ora sembrava intensamente vuoto e meno lucente. Come se fosse venuto a mancare l’elemento che faceva spiccare ogni centimetro di quel luogo. Il suo diamante pazzo.

Raggiunse un locale, probabilmente il primo che vide, o forse c’era qualcosa che lo attirava all’interno.
Chissà, forse era quella scritta luminosa a pallini che si accendeva solo di notte.
Ecco, in fondo stiamo usando lo stesso sistema delle stelle e non ce ne accorgiamo.
Entrò, la musichetta nella sua testa sembrò evolversi per un attimo, per ritornare col solito giro. La solita strofa, ma non importava nemmeno.
Quello era precisamente la situazione e il luogo in cui voleva meno trovarsi più nella sua vita. Eppure diamine, doveva esserci legato a quel cavolo di posto!
Qualcuno lo guardava storto lì dentro, o forse anche più di uno, ma non aveva per nulla voglia di guardarsi intorno con la acida conseguenza di notare mille, per sparare un numero, sporche persone. Dei loro nomi non importava. E anche se li avessero avuti, o se lui li avesse saputi, sarebbero comunque rimasti le uniche misere e solitarie macchiette di personalità che avevano nell’anima.
Il barista, anche proprietario, con quello sguardo da uomo vissuto inglese, e un volto un po’ antipatico sorrise, un po’ da vecchio amico, un po’ da forzato. Non disse niente, ma gli sorrise, seguendolo con la coda dell’occhio mentre si sedeva solo ad un tavolino prendendo un giornale, forse a caso o forse no.
Lui lo sapeva, lo aveva notato, e non poteva far altro che disprezzarlo un po’ quello sguardo. E’ vero che molti dicono che il padre era giunto a miglior vita durante la guerra, ma forse non era il caso di sbatterlo in faccia sempre a tutti.
E pensare che proprio in quel momento qualcosa gli balenò in testa, uno sciocco, forse, pensiero che si confondeva tra i tanti che aveva in continuazione, ma allo stesso tempo cercava di brillare, pretendeva attenzione.
“Poor Dad Died Today”, lesse nella sua mente per un attimo, o forse lo sentì da una voce lontana, vista la temporanea scomparsa della musichetta che aveva in testa, pronta a tornare un attimo dopo.
Non ci pensò troppo, quella scritta lo aveva un attimo inquietato e non sapeva nemmeno lui come. O il perché, probabilmente.
Così cancellò dalla mente il messaggio, forse passato e dimenticato o forse di un lontano, o no, futuro, e continuò a leggere al giornale. O almeno a far finta di guardarlo, come pensavano gli altri.
Furono attimi strani, tesi, come se lui fosse capace di far esplodere una bomba solo così, perché gli andava.
Il suo “solito” gli arrivò sul suo tavolino, ci fu uno scambio di sguardi, un incrocio, una piccola paura, poi nulla: passato qualche tempo, lui se ne andò così come era arrivato, forse per un richiamo lontano, forse perché era stanco di quel posto. E il cibo era ancora lì, senza essere stato minimamente toccato. Probabilmente pure il giornale.

Quando uscì quello che poteva sembrare un boato di emozioni esplose, e finalmente lui poté riguardare il cielo come aveva sempre voluto fare. Un cielo che sembrò pronunciare un sospiro di sollievo, in modo pacato, leggero, ma allo stesso tempo intenso. Come una persona lontana che lo pensava, come qualcuno che, pur sentendo la sua mancanza, riusciva a fare senza di lui.
La Luna si era spostata. Forse lui si era spostato, forse il giardino, ma comunque ai suoi occhi non era più nella stessa posizione. Ma, potevano passare le ore, potevano passare centinaia di pensieri, centinaia di sforzi, ma l’unica faccia che si poteva vedere era sempre, e soltanto, quella. Potevano passare mille ignoti volti di fianco a lui, ma nulla sarebbe mai cambiato.

Poi qualcosa cambiò. La musica si era evoluta improvvisamente. Quei volti sembravano meno sconosciuti.
E in qualunque caso, li avrebbe rincontrati uno per uno.
E se la diga si squarciasse, si rompesse e non tratterrebbe più nessun flusso folle,
E se non ci fosse più posto a quello che chiamano Paradiso,
E se la sua testa scoppiasse, ancora una volta, ma di oscuri pensieri accertando i timori altrui
Allora sarebbe stato definitivamente certo che li avrebbe rivisti da lassù.
Li avrebbe rincontrati, quando finalmente i loro pensieri, le loro anime coperte da maschere anonime, si fossero liberate, forse il giorno della loro morte, forse il giorno della loro liberazione. Nel lato oscuro della Luna.

Lo sfogo sembrò finire d’improvviso, proprio nel momento in cui tutti potevano sperare che continuasse. Oltre alla musichetta lontana, si sentiva un coro di fantastiche voci, che potevano essere paragonate alle vocine nella tua testa che fanno la telecronaca di tutte le tue azioni apparentemente memorabili. E qualcosa ricominciò, qualcosa riprese a muoversi nello stesso modo in cui era iniziato: il giro riprese.

Lontano, lontano da quel giardino, lontano da quei passi e lontano da una possibile, e stranamente probabile direzione, lo spettro di una persona tornava a casa. Era lo spettro di un barista, o forse di un proprietario. Lo spettro di un musicista, o forse di un poeta. E non una casa normale, la casa in cui tutto era iniziato, e forse in cui tutto era finito. E lì, sul tavolino, strumenti in mano e tanta voglia di fare, c’erano altri fantasmi, altri spettri, e perfino un rimpiazzo. Un rimpiazzo che non faceva affatto dispiacere ciò che veniva prima. Forse erano spettri solo ai suoi occhi. Forse quegli spettri avevano un nome. Forse quel nome era il suo, ed era quello che gli avevano suggerito le stelle.
Tanta voglia di fare, sì, ma fare cosa?
Qualcosa di diverso, qualcosa di mutato, o qualcosa fatto di rimpianti?
Eppure, qualsiasi cosa avrebbero voluto fare, la risposta era già scritta, già udibile e riassumibile: una folle risata pervadeva la loro testa. Il pazzo era ancora lì, non potevano negarlo.
Lì a gettare chiavi dopo aver chiuso la mente delle persone, lì a ridere follemente. Lì a ridere a influenzare qualcosa di cui ormai doveva essere solo terribilmente lontano. Nella loro testa, e forse anche nel loro cuore.
Ma era una risata follemente udibile per poco, il tempo giusto per essere una voce da non accertare nei crediti.
Una risata pronta ad essere sostituita da un grido lontano, non udibile. Un lamento, un dolore.
Ancora una lenta certezza di poterli incontrare di nuovo.
Un ritorno a casa.

Qualcosa cambiò d’improvviso, finalmente. Ci fu una evoluzione inaspettata, il giro morì.  Qualcosa si alzò, qualcosa cominciò a volare. Un coro di voci cantava, e concludeva il loro miglior lavoro.

La sedia dondolava. Lui era a casa, davanti a una scrivania. Qualcosa girava in quella stanza, qualcosa si muoveva, qualcuno gridava, qualcuno rideva.
Qualcosa ticchettava riportando le 3 del pomeriggio, una finestra si aprì non riuscendo a far entrare nessuna luce, qualcuno provò ad entrare.
Qualche pensiero rimbalzava in qualche mente folle, riassumendo una vita intera.

Tutto ciò che era la sua realtà,
Tutto ciò che amava,
o che al contrario voleva odiare,
Tutto ciò a cui era sempre stato lontano,
Tutto ciò che aveva, forse sbagliando, sempre salvato,
Tutto ciò che aveva potuto creare,
Tutto ciò che aveva rivoluzionato, o per errore distrutto,
Chiunque l’aveva sempre giudicato,
Chiunque era sempre stato nel suo cuore,
Chiunque lo aveva sostituito,
E tutto ciò che è adesso,
Tutto ciò che è andato,
Tutto ciò che sarebbe venuto,
Tutto poteva andare, tutto era in sintonia, tutto era logico, umano, sotto il sole,
Ma ora è eclissato dalla Luna.







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Tum.

Tum.

Tum.

Tump.

Tump.

Tum.

Tump.

There is no dark side of the moon really. Matter of fact it's all dark.

Tum.

Tum.

Tump.

Tump.

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